Franca Maria Ferraris

Recensioni

 

Giudizi di importanti critici sulle opere - Recensioni a cura Luciano Nanni

La poesia può rappresentare e trasmettere percezioni che in altro modo non sarebbe possibile. Per esempio, l’arte figurativa prevede uno sforzo maggiore per intuire. Nel caso della Ferraris la voce diventa essenziale, ma fa parte di quella dimensione che trova nella parola la sua compiutezza espressiva. Ma i “figuranti sul proscenio” o il “dialogante monologo” sfumano talvolta in prospettive inedite, in istanti che sembrano riferirsi proprio allo scintillo degli astri, qui riportati in mutevoli mappe.
Dal punto di vista formale lo stile dell’autrice si avvale di versi che oltrepassano la normale misura, semmai costruendo internamente uno loro ritmicità che prevede talvolta un tono elevato, quasi solenne. Questo deriva, almeno in parte, da quel recupero di una classicità che attraversa i secoli e alla quale i poeti sentono di appartenere, se pur in mutate forme. Inevitabile quindi vi affiori la natura nei suoi aspetti più affascinanti: sta al poeta coglierne le vibrazioni, di luce e ombra, di suono e silenzio, di colori e opacità, ma comunque intesa in una profondità che coinvolge per forza di cose l’animo umano.
La compenetrazione fra identità e paesaggio procede in stretta progressione, rileva ogni particolare e lo esalta nella parola poetica. Se la vita è intesa quale fiume che scorre verso la foce, l’unità verbo e carne diventa indissolubile: non è possibile altrimenti separarsi da quella realtà in cui confluisce ogni senso, dove il sentimento è la percezione più acuta dell’esistenza. La spaziosità del verso si libra spesso in anelito dello spirito che cerca la verità e intende trovarla, mai arreso di fonte ai limiti che la materia impone. Un testo come L’asfodelo ci mostra appieno una ricchezza inventiva che travalica la letteratura comunemente considerata. Pare che la poesia ci conduca verso luoghi inesplorati, che addirittura trasfiguri l’io, lo tramuti in altri elementi: opportuna la domanda se si può divenire stella di fuoco o pallido fiore. È un miracolo che la poesia compie: espandersi in ogni dove, comprendere l’ignoto allorché si presenta sotto le apparenze di un mondo metafisico.
Ma la critica deve interrogarsi: come finirà tutto questo? esiste la possibilità che l’oggetto pensato si realizzi concretamente? e qual è la differenza tra il concreto e l’astratto? Forse conviene non porsi troppe domande, godendo invece del misterioso piacere che un verso ci procura. Però gli eventi intenzionali si ricollegano a un progetto, per quanto non definito, per lasciar sì che la fantasia si proponga come una specie di linguaggio entro cui sorgono figure di splendore e istanti oscuri. Le mappe celesti sono a ben vedere un rapporto tra l’individuo e l’universo, un cosmo che intimamente pensato si riconosce quale proiezione metafisica. Si intravede nelle stelle un mistero: la pochezza del corpo fisico ci fa smarrire, mentre la mente che sonda spazi irreali rischia di portarci a una valutazione solo ipotetica.
Si deve allora tornare a un mondo più raccolto: potrebbe essere il giardino spirituale, in cui un tempo oltre a piante e fiori appariva una statua che teneva in mano una stella di pietra, con la didascalia: una stella al di là del pensiero umano. Impossibile, dunque non segnalare un passo di grande bellezza: “l’incipit di una lenta melopea / come sgorgata dall’albero / del melograno” — ciò azzera in pratica qualsiasi incertezza e ci offre un istante magico come soltanto un poeta è in grado di offrire. Scaturiscono inoltre i ricordi, che vanno a coniugarsi con i tanti soggetti la cui presenza è un tessuto connettivo, linguistico per chi esercita la critica pura, dato sostanziale per chi ritiene la poesia un atto creativo. Non si dimentichi “il muro d’ombra” di ungarettiana memoria: l’unica arma per sopravvivere sembra davvero la scrittura, che non si arrende al trascorrere delle stagioni e alla inevitabile caduta degli dei.


LUCIANO NANNI

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