Franca Maria Ferraris

Pubblicazioni

       

Aquilius e la Stirpe del Drago

   
     

 

Aquilius e la Stirpe del Drago

De Ferrari Editore, 2011 – pagg. 315

 

Illustrazioni e impaginazione di Cristina Sosio

Premio Internazionale di Poesia e Narrativa ACSI
Firenze Capitale d'Europa - XV edizione
1° PREMIO Narrativa Edita per Ragazzi

Motivazione:
Una bella favola che si snoda fra storia e leggenda, dove due bambini sono protagonisti insieme con il drago Aquilius di mirabolanti avventure attraverso varie epoche.
Il piccolo lettore si può identificare con i protagonisti eredi di un'antica stirpe, Ottavia e Max,  che magicamente si trovano catapultati in un mondo fantastico dove tutto è possibile.
Le due autrici, Franca Maria Ferraris che ha scritto la storia e Cristina Sosio che ha ideato i protagonisti e disegnato le illustrazioni, sono riuscite a comunicare ai ragazzi valori universali nelle modalità a loro accessibili e stimolando la fantasia.

Per la Giuria
Dott.ssa Daniela Giacometti
Firenze, 15 dicembre 2012

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RECENSIONI

 

Gianfranco Barcella

Luciano Nanni

Monica Florio

Nicoletta Belli

Tutte le recensioni

 

RIVISTE E GIORNALI

 

"La repubblica", 25 agosto 2011

 

PREMI

 

1° Premio Narrativa Edita per Ragazzi - “Firenze, Capitale d’Europa” - XV Edizione
premiazione Sabato 15 dicembre 2012 alle ore 16,00 - presso il Salone dei Cinquecento in Palazzo vecchio - piazza della Signoria – Firenze.

-1° Premio SPECIALE, 19° Rassegna Internazionale Padus d'Oro 2014 - Sezione Letteratura per Ragazzi
Premiazione Domenica 18 maggio 2014 ore 16.00 - Sissa Trecasali, Parma, Sala del Cinema Teatro Comunale

1° capitolo da “Aquilius e la Stirpe del Drago”

 

CAPITOLO 1

Ottavia

D'accordo, Ottavia Dragobello De Aquilibus è un nome importante.
– Uau! – esclamerà qualche mio giovane lettore – un nome così altisonante, chissà a che gran tipa di ragazza appartiene! –
Ecco, avete sentito? Anche costui ci è cascato.
E invece non è così. Se questo nome ha un rimbombo, non appartiene ad un altrettanto… rimbombante personaggio.
Appartiene a me, una tipetta poco più che dodicenne, corta zazzera di capelli color carota, occhi colore delle foglie in estate e, sul naso, una spruzzata di lentiggini.
Con questa rapida descrizione di me stessa, vorrei chiarire perché tutti – o quasi – abbiano scucito da quel nome un po’ austero che è Ottavia la sua parte più interna, per trarne fuori un semplice e suonante Tavì.
Tutti o quasi, ho detto, poiché qualcuno che mi chiama Ottavia, in realtà, c’è. E chiarirò subito di chi si tratta.
La prof. di lettere, ad esempio, la severa ma brava professoressa Alice Cranioni. Lei, quando mi lascio andare a qualche chiacchiera con la mia compagna di banco Gloria Maravelli, beh… sì, lo ammetto… chiacchierare mi piace molto, mi fulmina con un imperioso: – Silenzio, Ottavia! –
E, se non provvedo subito a tapparmi la bocca, la rimanente ora di lezione sicuramente non filerà diritta.
Anche gli altri professori certe volte mi chiamano Ottavia, più spesso, però, essendo con noi meno confidenziali della Prof. di lettere, preferiscono chiamarmi con uno dei miei due cognomi, e precisamente De Aquilibus, trascurando quasi sempre, per non farla troppo lunga, Dragobello.
E persino mio fratello Max, ah… dimenticavo… ancora non l’ho detto che ho un fratello poco più giovane di me, un ragazzino di undici anni molto sveglio per la sua età.
Ebbene, dicevo, perfino Max, quando viene a trovarsi in qualche occasione importante, assumendo un piglio serioso, se parla di me, dice: – Mia sorella Ottavia! – e fa risuonare per esteso il mio nome.
Quando poi mi capita di agire diversamente da come lui mi aveva consigliato, specialmente se l’azione non va a buon fine, Max tutto tronfio esclama: – Ma io te lo avevo detto, Ottavia! –
E prolunga l’accento sulla ‘a’ mediana del mio nome, per far pesare quanto io abbia sbagliato, ed egli avuto ragione.
In ogni caso, oltre ad essermi fratello, Max è il mio amico più fedele, la mia ombra, direi, poiché mi segue dovunque e vive con me tutte le avventure e le disavventure della nostra non facile età.
Vi stupisce sentir definire la nostra età ‘non facile’? Sembra impossibile, ma è davvero così. E spiego subito il perché.
A questa età ci si sente già quasi adulti, tuttavia dobbiamo continuare a comportarci come se fossimo dei ragazzini sprovveduti.
Si conoscono già parecchie cose della vita, ma si deve fingere di non sapere nulla, per non passare da ragazzini un po’ troppo maliziosi…
Così, ogni volta che, per un qualsiasi motivo, ci allontaniamo da casa, abbiamo il dovere di chiedere il permesso, di far sapere dove andiamo e per quale ragione, di rispettare l’orario del ritorno e, se tardiamo anche di poco, ci tocca subire noiosissimi predicozzi.
Inoltre, dobbiamo studiare molto: ogni giorno svolgere una lunga serie di compiti di tante materie, dedicarci a qualche attività sportiva per far crescere bene il corpo assieme alla mente… eccetera, eccetera, eccetera.
Tutto ciò sarà anche giusto, non lo nego, però bisogna pure ammettere che la nostra vita non è facile come potrebbe apparire.
Ma torniamo a Max, anzi a Massimo Dragobello De Aquilibus. Altisonante anche il suo nome, vero?
Quando sarà adulto, se Max saprà costruirsi attorno… l’alone del personaggio di un certo valore, sicuramente il suo nome non lo smentirà!
Per ora è solo il nome di un ragazzetto dai capelli ricciuti, di un colore castano ben assortito con il colore degli occhi, che è quello marrone lucente delle castagne mature.
Quando Max è allegro, e quasi sempre lo è, quei suoi occhi hanno un’espressione così gaia da comunicarti gioia di vivere. E se allo sguardo egli unisce il sorriso, è matematicamente sicuro che ti conquista, perché riesce a farti intendere che alla vita occorre dare il senso più felice possibile.
Da tutti, tranne rare eccezioni, lui è chiamato Max.
Questo diminutivo così breve e simpatico, che ha inizio con ‘ma’, tipo quelli che per ogni constatazione esprimono una forma oppositiva, e che termina con una ‘x’, tipo quelli che ‘io-non-so’, questo diminutivo, dicevo, si adatta perfettamente al suo carattere dubbioso e mai pienamente convinto di ciò che gli viene detto; poiché di ogni argomento, anziché accontentarsi di apprendere notizie già confezionate, lui preferisce andarne alla ricerca e scoprirle in prima persona.
Magia dei nomi! In ciò che essi significano si dice che sia inscritto l’animo di chi li porta. E di magia, infatti, si parla quando qualcuno chiama me Octavia e Max Maximus.
Il ‘qualcuno’ a cui mi riferisco, quando si presenta, è sempre circondato da una certa ‘aura’ magica. Sì, ho scritto ‘aura’ tra virgolette perché questa parola, che anticamente significava aria in genere, oggi ha un significato più ristretto, con il quale si intende piuttosto quella luce misteriosa che aleggia attorno a un vero personaggio!
Poiché è di un vero personaggio che ora voglio parlare e, senza dubbio egli lo è, ma se proprio sia ‘vero’, nel senso di ‘in carne ed ossa’, questo non lo posso affermare. Riflettendoci bene, potrei dire che egli è vero solo fino ad un certo punto, e allora, in questo caso, quale sarebbe la parola adatta per definirlo in modo giusto?
Ecco… potrebbe essere adatta la parola ‘e-va-ne-scen-te’ o, se mi si passa il termine, ‘sva-ne-scen-te’, perché così, come egli appare all’improvviso, altrettanto improvvisamente svanisce.
Tipo una bolla di sapone, per intenderci. O all’incirca.
Costui però, anche così, bolla di sapone com’è, quando mi chiama Octavia, mi fa sentire davvero importante!
Infatti, se non amo molto sentirmi chiamare Octavia, alla romana, cioè come lo pronunciavano i Romani nella loro lingua, che era il latino, quell’antica pronuncia del mio nome riesce a farmi sentire una persona che magicamente potrebbe spostare la propria vita anche in un altro tempo.
Come se avessi una doppia personalità, l’una che vive nel presente e l’altra nel passato!
Nel corso di questa storia, tuttavia, si comprenderà perché il personaggio di cui ho detto mi chiami così, e si farà la conoscenza di altri personaggi che chiamano sia me che mio fratello con il nostro nome di battesimo pronunciato per intero e talvolta perfino in latino.
E ora, dopo aver descritto la mia immagine così come appare ad un primo colpo d’occhio, e aver dato alcune informazioni in modo da facilitare la mia conoscenza, dirò qualcosa sulla parte di me che non si vede perché sta nascosta dentro, ma che invece è essenziale; ciò che più conta riguarda lo spirito, quindi è nascosto allo sguardo come sta scritto in quel libro famoso che ho appena finito di leggere e che è intitolato Il piccolo principe.
L’essenziale in me è il dono di una grande fantasia, dono che coltivo ogni giorno perché dà alla mia mente due robuste ali con le quali posso volare. Sono esse che portano i miei giovani anni ad aver già vissuto molte vite, anche oltre i normali confini dello spazio e del tempo.
Eppure non vivo in una di quelle vaste città che offrono i più veloci modelli di crescita… sociale e… intellettuale.
Si dice così? Lo spero, perché ho molta facilità nell’acchiappare al volo certe parole che ritengo nuove ma, dopo che me le sono infilate in testa magari senza comprenderne bene il significato, le uso dove a mio parere suonano meglio. Così capita che talvolta io le dica e le scriva a sproposito. Di questo sono pronta a scusarmi in anticipo.
Dunque, stavo dicendo… ecco… ho di nuovo perso il filo. Perché la mia fantasia in continua ebollizione mi suggerisce sempre nuove idee, e la colpa è tutta di questa sbrigliata immaginazione di cui la natura mi ha dotata!
Eh già! Lo dice sempre anche mamma che io lavoro troppo di fantasia. Lei definisce questo mio atteggiamento addirittura un difetto, avvertendomi che soprattutto in certe occasioni devo imparare a tener saldi i piedi per terra.
Però, alla fin fine, mamma, pur se a parole mi trova a ridire, di fatto mi accetta di buon grado anche così come sono, perché è lei la prima a riconoscere che proprio in questo… difetto io sono veramente sua figlia.
Infatti anche mamma, una giovane signora di nome Marta dai lisci capelli castani, il sorriso aperto e gli stessi occhi scuri di Max, spesso si lascia trasportare dall’immaginazione.
E dire che lei ama molto la storia, e non solo la ama, ma la conosce a fondo. In realtà, tempo addietro, rovistando in un cassetto del comò per cercare non so cosa, trovai, tra altri documenti, il suo diploma di laurea in storia antica che mai mi aveva mostrato.
Alla mia domanda sul perché, con quel titolo, non insegnasse storia nelle scuole, mamma sostenne di aver preferito seguire me e Max nella crescita, restandoci accanto.
– E quando noi due saremo più grandi? – le avevo chiesto – beh… allora si vedrà il da farsi… – fu la sua risposta.
Ma se mamma ama molto la storia posso dire, senza paura di sbagliare, che ad essa preferisce le leggende!
E questo perché, da piccoli, a me e a Max, lei spesso raccontava leggende che noi trovavamo così interessanti da continuare a fantasticarci sopra a lungo, per conto nostro.
Si trattava sempre di antiche storielle basate su credenze popolari che riguardavano la nostra terra, spesso rimodellate a suo piacimento, e che io mai ho dimenticato. Come non ho dimenticato certe fiabe meravigliose che lei inventava per noi, al momento.
Perfino a papà, a cui talvolta capitava di ascoltarle, piacevano tanto quelle leggende!
E dire che lui è un serio signore di nome Leopoldo, alto di statura, capelli biondo scuro e occhi chiari, sul verde come i miei, che appaiono assorti dietro le lenti degli occhiali quando sta immerso fra le sue carte. Ma quando lui sta con me e Max, i suoi occhi si fanno allegri, come se improvvisamente tornasse ragazzo.
Papà lavora tutto il giorno nel suo studio di giudice di pace, dove è impegnato nel dirimere liti e risolvere cause tra i cittadini di Aquilis.
Egli ha sempre affermato che, quando gli capitava di ascoltare le storie che mamma inventava per noi, riusciva a rilassarsi dimenticando, almeno per un po’, i fatti veri, spesso intricati e difficili, ai quali ogni giorno il suo lavoro lo poneva di fronte.
Ecco… parlando di leggende e di fiabe, la mia immaginazione si è messa in moto e ho perso un’altra volta il filo.
Dov’ero rimasta?… Ah… sì… al fatto che non abito in una grande città. E neppure abito in un castello fantastico, in mezzo a una foresta piena di alberi e di fiori dove, come in ogni bella favola si racconta, regna un’atmosfera di sogno.
Il mio paese è Aquilis, una cittadina che esiste nella realtà, situata nell’immediato entroterra di una zona costiera che il mare ora blandisce con piccole onde, ora percuote furiosamente con marosi selvaggi.
E la casa dove abito con i miei genitori e con mio fratello Max, ha la fortuna di sorgere tra il verde, ai piedi di un colle.
Gli ulivi che lo rivestono quando soffia il vento – e qui spesso il vento soffia molto forte – lo fanno splendere come fosse d’argento. Questa luce speciale che avvolge tutto il colle proviene, secondo me, dal castello che si erge lassù in alto, sulla sua cima. È il Castello del Pomo, la cui presenza fu molto importante nel passato. Guardandolo, come spesso mi accade, dalle inferriate delle grandi finestre, oltre le quali immagino che ancora ardano le fiammelle di cento candelabri, vedo diffondersi intorno quell’antica luce.
Ho letto che il castello vi fu costruito in epoca medievale quando, più ancora che adesso, si raccontavano le fantastiche leggende degli elfi e delle fate… e magari ci si credeva!
Uau! Quando ero piccola quelle storie mi entusiasmavano un sacco, ma devo confessare che tuttora non hanno smesso di interessarmi.
Tuttavia anche le paurose storie delle streghe, quelle dove tutto è da brivido, mi piacciono, anzi, dico di più, mi attraggono. Solo a pensarlo, il brivido trasmette fortissime emozioni. E io amo le emozioni perché mi fanno sentire viva. Non solo per questo motivo, secondo me, le storie delle streghe sono coinvolgenti, ma anche perché aprono la mente su quei tempi oscuri, quando purtroppo, oltre le protagoniste di certe favole, erano chiamate streghe anche alcune donne vere, sul conto delle quali circolavano cattive quanto false dicerie per cui, senza alcuna colpa, esse tragicamente finivano sul rogo.
Parlo dell’epoca medievale, quando il Castello del Pomo fu abitato da un famoso Cavaliere dell’Ordine di Dragobello. Il suo nome era Aquilius. Egli passò dalla storia alla leggenda per la fama che si era diffusa attorno lui. Fama di persona autorevole sì, ma sempre molto giusta nel suo operare riguardo agli abitanti del luogo. E ciò non accadeva spesso, in quel tempo!
Per procedere con ordine, però, devo fare un passo ancora più indietro nel tempo.
Prima che vi sorgesse il castello, infatti, durante l’epoca romana, sempre da queste parti ma in una zona più vicina al mare, un nobile patrizio romano, con il suo seguito, aveva disposto un insediamento. Egli operò la bonifica di queste terre allora paludose e, oltre la sua, vi stabilì le case dei suoi seguaci, non prima di aver migliorato quelle degli abitanti locali, creando un clima di generale benessere.
Anche lui si chiamava Aquilius. Anzi, fu proprio questo nobile romano il capostipite della stirpe.
È il caso di dire che il nome di Aquilius in questi luoghi la fa da padrone!
E quando si dice che il destino è scritto nel nome, si dice okay. Poiché anche Aquilis, il nome del paese, deriva direttamente da Aquilius.
Dopo queste notizie risaliamo di nuovo al Medioevo, cioè a quel tempo della storia in cui venne costruito il castello, che diventò subito un importante centro per la vita del paese. Passato però il Medioevo, quel momento di gloria ebbe termine e le mura del castello rimasero a lungo disabitate. Solo per brevi periodi vi sostarono orde di barbari e di avventurieri che lo saccheggiarono, affrettandone anche il decadimento esteriore. Dunque, quello che era stato un imponente maniero, a poco a poco, andò in rovina.
Ora, però, lo hanno tirato a nuovo per rivalutarne la prestigiosa presenza.
E con successo, devo dire. Infatti, alcune sue sale sono diventate la sede di un museo che mostra i reperti storici rinvenuti durante gli scavi archeologici effettuati sul territorio di questa zona.
Non a tutto l’edificio, tuttavia, il look è stato rifatto.
L’ala destra, quella che io preferisco, essendo più nascosta e in ombra, non è mai stata toccata. Appunto in questa zona del castello, sulla piazzola dell’ala Nord, sorge un grande albero, un melo da tutti ritenuto leggendariamente magico.
Dicono che questo albero stia lì da un’epoca immemorabile. Sicuramente, se non di altro, la magia gli ha fatto il dono dell’eternità. E l’albero ha voluto che gli abitanti della valle condividessero con lui una parte di quel dono, facendo sì che essi vivessero circa duecento anni e che, di conseguenza, ai loro settant’anni corrispondessero all’incirca i trentacinque di oggi!
Oltre alla gratitudine che gli spetta per un tale dono e al mitico fascino che gli viene dall’essere considerato eterno, l’albero possiede anche il pregio di un aspetto bellissimo.
Dal suo tronco alto, diritto e senza nodosità, i rami si espandono armoniosamente, disponendosi in simmetria e allungandosi con grazia, quasi per accarezzare le vecchie mura del castello.
Tuttavia, nonostante le doti che vanta, l’albero non produce frutti.
E questo avviene per il motivo – così narra la leggenda – che in un’annata di tanto tempo fa, tra le sue mele chiamate carpèndule, se ne vide luccicare una tutta d’oro sulla quale era incisa la lettera ‘A’.
Evidentemente era intenzione dell’albero offrirla in dono al Cavalier Aquilius per i suoi meriti verso gli abitanti del paese ai quali, oltre alle molte altre concessioni, egli consentiva di spartirsi tra loro, ogni anno, l’intero e sempre abbondantissimo raccolto dei frutti.
Purtroppo, prima ancora che Aquilius la notasse, la mela d’oro venne rubata da uno sparviero inviato da qualcuno che, macerato dall’invidia, la voleva per sé.
L’invidioso, però, non riuscì ad averla, perché allo sparviero la mela d’oro, trattenuta per il peduncolo, durante il volo sfuggì dal becco e cadde in chissà quale profondo burrone.
Il prezioso… frutto non fu più trovato.
L’albero, sebbene indignato, continuò a vivere e a prosperare nei secoli, infoltendo i suoi rami, coprendosi nella giusta stagione di fiori e di foglie, senza però mai più produrre una sola mela né, tanto meno, una mela d’oro!
Nessuno osò mai tagliarlo, appunto perché, per la sua bellezza e la sua longevità, da tutti era ormai considerato un albero magico.
Il melo, che prospera tuttora sulla piazzola dell’ala Nord, ha dato il nome al castello che, per la sua presenza, venne chiamato il Castello del Pomo.
Ebbene, un po’ perché in ombra, un po’ perché mai è stata cambiata dai restauri, ma soprattutto per l’atmosfera che questo magico albero vi sprigiona intorno, l’ala Nord del castello mantiene interamente il misterioso fascino di un incantesimo. Fantastico, vero? E assolutamente… da brivido!

 

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